LETTERE (6) : SAUDADE IL SORRISO DELLE LAGRIME

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il 1927 Rol era stato trasferito a Parigi, ed oltre a continuare a coltivare la passione del giornalismo, scrivendo articoli di finanza e inviandoli a “piccoli” giornali per la pubblicazione, continuava a scrivere un libro iniziato 2 anni prima “Saudade”, parola che indica in portoghese e spesso la troviamo in canzoni brasiliane, il rimpianto nostalgico, nostalgia. Alcuni scritti riguardante la saudade li ritroviamo in 2 lettere raccolte nel libro di Catterina ferrari : “Io sono la grondaia”, la prima a pag. 56, la seconda a pag. 242. Le lacrime del sorriso, la nostalgia, l’amarezza sono un concetto di Rol a carattere introspettivo, niente a che vedere con persone care o mori, ma una nostalgia dell’anima, un sorriso amaro, un sorriso con le lacrime. Vale la pena di leggerle e riflettere, per capire il tormento attraverso una analisi non del sè, ma del “sentire” dell’anima.

Marsiglia, il 15 di febbraio 1926
Cara amica lontana,
non so perché ho tardato tanto tempo a scriverle, forse perché non l’ho mai dimenticata. Succede sempre così: pas­sano i giorni, i mesi, gli anni ed ecco che ad un tratto ci si ricorda di un nome: si fruga il passato come per cercare l’im­magine di un volto conosciuto altri tempi, e poi si scrive una lettera pensando: la riceverà, ci sarà ancora, che cosa avrà fatto durante tutto questo tempo, che cosa farà, ora?
No, io non ho mai dimenticato Bigin, no non ab­bia paura se io scrivo questo nome. Oramai intanto chi so­no io? L’eco di una voce lontana che giunge appena, un’im­magine velata che si distingue appena tra i riflessi verdastri di uno specchio settecentesco … infine, io, una perso­na che non si vedrà mai più, mai più!
Che cosa sono diventato ho orrore a dirlo. Più nulla in me che ricordi l’uomo di ieri, il poeta sognatore fra le so­litudini delle grandi montagne. Ho profetizzato un giorno il mio avvenire con una semplice parola: Saudades!
Non avrei creduto mai di rivivere alcuni versi di un poe­metto scritto fra una lagrima ed un sorriso come fu l’Om­bra che conobbe la morte nello stesso giorno che ebbe la vita.
Chi è quell’individuo che si trascina per i vicoli oscuri di una città lurida, curvo sotto il peso dei suoi pensieri che son più duri degli anni, e socchiude gli occhi -sovente – dietro le lenti spesse dei suoi occhiali atteggiando la boc­ca ad una smorfia che traduce tutto lo scetticismo della sua anima? Quell’individuo che è divenuto così trascura­to nel vestire, tanto che i passanti lo schivano pel timore di insudiciarsi e poi si soffermano e si voltano indietro a guardarlo pensando quanto tristamente può degenerare questa razza umana che ha le origini tanto illustri perché di­scende da un Dio che l’ha creata a sua somiglianza?
Quell’individuo sono ancora io, cara amica lontana, io che vado ben dirigendomi verso quella gran piazza dove c’è il Tempo che mi attende con l’indice teso verso due pini lon­tani lontani che si drizzano più alti del muro di un orto. Non mi si può negare il diritto di poter dire di conoscere la vi­ta come neppure quello di poter sghignazzare beffarda­mente sulle gioie e sui dolori di questa orrenda umanità. So­no diventato scettico, ho detto, e lo è veramente. Ma scet­tico soltanto per tutto ciò che può riguardare la vita in sé stessa, piena di miserie e di tribolazioni. Ho invece accre­sciuto maggiormente il mio concetto sull’esistenza di quell’a­nima che innalza lo spirito nei momenti più oscuri della sof­ferenza e lo conforta dolcemente con quella grande gioia sconosciuta che si prova non sentendosi soli quando nella realtà si è soli effettivamente. La fortuna e gli uomini mi hanno fatto tanto male, e continuano a farmene, al contrario io non odio nessuno perché nel mio prossimo, anche at­traverso i sorrisi più schietti, intravedo la mia stessa esi­stenza infelice e disgraziata. Mi sono limitato invece a chiu­dermi in me stesso ed a salvaguardare una fiducia che real­mente non esiste più. Ho un amico, l’unico, a Marsiglia col quale vado perfettamente d’accordo. Lui è il vero pro­totipo dell’uomo felice. Materialista sfegatato non crede che al corpo e mi dice apertamente che il mio pensiero sull’a­nima è una cosa ridicola. La sua filosofia darwiniana che fa discendere l’uomo dalla bestia lo convince maggiormente del postulato epicureo. Ha una grande cultura filosofica ma non se ne vanta, d’altra parte non ha ancora osato di cor­rompere i miei principi. Alla sua dottrina io oppongo il mio silenzio ed al suo eterno sorriso la maschera del mio dolo­re. Direi quasi che, ad onta del suo “credo” profano, il mio semplice “Pater” gli faccia molta impressione.
È d’altra parte un vero grande amico che mi rende me­no penosa questa vita di sacrifizi e di esilio. Lei sa – cara arnica – quanto io sia sentimentale: immagini come avrò po­tuto adattarmi a vivere in una città dove sono giunto non conoscendo nessuno e con delle pessime commendatizie ri­guardo alla mia nazionalità, perché qui, “Italiano” signifi­ca brigante, né più né meno. Se mi chiedessero oggi qual è lo scopo della mia vita, non lo saprei dire, non ho più idea­li. L’ideale l’ho lasciato nella mia bella patria assieme alla giovinezza. Sono giunto qui con dei propositi che presto di­leguarono; mi imposi una maschera che speravo col tem­po divenisse un’abitudine, ma poi la maschera cadde, e mi ritrovai come prima. Ritornai ai miei versi, alla mia pen­na, alla mia “vena” naturale … incominciai ancora a scrive­re dei canti d’amore … Ma la mia voce non era altro che il canto d’un rosigno­lo senza notte. Rimasi così, chiuso in me stesso con quat­tro solchi profondi sul viso, con una grande serenità nel­l’animo, quella serenità che vien dalla rassegnazione, ma con un vulcano ardente nel petto. Quello è il mio passato, è tutto il mio ricordo che nessuno mi potrà mai toccare e che, anche contro lo scetticismo di me medesimo qualche volta, io difendo con tutta la forza di un leone.
Il mio ricordo, il mio passato! Le uniche cose che mi ricordino che io sono vivo, su di una terra popolata di uo­mini, è che la mia legge ha un’origine divina. Io credo di essere un santo.

 

13 settembre 1955

Se fosse un libro vero un romanzo, allora non potrei più chiamare “Saudades” queste pagine, “Saudades “, “il sorriso delle lagrime”, le lagrime del sorriso. Se voi crede­te che io abbia chiesto all’Editore di stamparmi queste pa­gine per voi allora è falso: né per voi né per Lei e neppure per me.
L’ho fatto per appagare il mio cuore che voleva guardare da queste pagine come ci si guarda nello specchio dopo aver pianto lungamente. Per voi invece è una cosa tutta diver­sa. Non vi è mai successo di passare dinnanzi ad un’iscrizione così scritta: «Qui giace il tal dei tali, trovò nella morte la luce che gli negò la vita, incompreso da tutto e da tut­ti»? Che importa a voi? Leggete e poi passate indifferen­temente. Ed anche per Lei è una cosa diversa: non legge indifferentemente, ma si diverte. È proprio il vero “Sau­dades”, il sorriso delle lagrime: ma delle lagrime altrui.
La storia dovrebbe essere lunga ed in tre tempi, come tutte le storie d’amore: l’alba, il giorno e la notte. Invece è brevissima ed in un tempo solo: la notte. Perché solamen­te nella notte le lagrime hanno un sorriso.
Non esiste l’uomo, lo scrittore od il poeta, e nemmeno il filosofo ma solamente l’idiota che ripete le parole del suo cuore senza chiederne il consenso alla mente.
È quasi come un cieco che modelli nella creta l’espres­sione d’una cosa che pensi.
A chi vede sarà dato di poter intuire quella cosa.
A voi il rispondere dopo che avrete letto queste brevis­sime pagine. Ma ancora come vi ho detto, non sono state scritte per voi.
Signori, il prologo è finito. I lumi alla ribalta si accen­dono e quelli della sala si smorzano. L’orchestra incomincia il preludio dell’opera. Saudades = il sorriso delle lagrime.

 

LETTERE (2) SAUDADES